lunedì 5 maggio 2014

Mamma senza filtro...Il co-sleeping è autonomia

Mamma senza filtro
Il mio lavoro da tre anni e mezzo è uno solo, il più bello del mondo: essere Mamma di due bambini, Christian di tre anni e mezzo e Fiamma di due anni. Una mamma alla quale piace informarsi e informare e possibilmente far conoscere e capire falsi miti sull’infinito mondo dei bambini.  https://www.facebook.com/groups/mammeitalia/ 

Per segnalazioni scrivetemi alla mail: syluna@libero.it

Il co-sleeping è autonomia
Una mamma ci ha segnalato un articolo a mio avviso assolutamente contestabile che potete trovare nel link seguente: http://www.corriere.it/salute/speciali/2014/sonno/notizie/disturbi-sonno-bambini-l-80percento-ha-cause-comportamentali-13ea8926-9492-11e3-af50-9dc536a34228.shtml
Ora vediamo di analizzare un po’ i contenuti e controbattere:
È fondamentale che il bambino impari prima possibile a dormire nel proprio letto, sviluppando progressivamente l’autonomia
Dunque perché è addirittura fondamentale che il bambino (neonato) diventi autonomo? Abbiamo veramente cosi fretta di farli crescere?
Partiamo col dire che: Ogni famiglia è un mondo, un sistema a sé e con il proprio funzionamento e deve trovare il suo modo, unico ed inimitabile, di vivere la genitorialità. Nessuno dovrebbe sentirsi in diritto di giudicare le scelte di qualcun altro! Non è sbagliato far dormire i bambini nel loro lettino ma non è nemmeno sbagliato, tantomeno dannoso, dormire tutti insieme nel lettone; è solo una questione di cultura e di stile personale
Detto ciò proviamo a fermarci e a pensare alla storia delle relazioni familiari, non dovrebbe stupirci il fatto che, per la gran parte della storia dell’uomo, madri e figli hanno vissuto nella natura selvaggia e che i risvegli notturni hanno assicurato ai bambini nutrimento, protezione, calore. Fino all’inizio del Novecento non ci si poneva nemmeno il problema di dove dovessero  dormire i bambini, perché era ovvio e naturale dormire tutti insieme. In termini psicologici la vicinanza alla madre, diurna e notturna, fornisce protezione, calore e nutrimento ed è quanto si aspettano tutti i cuccioli di mammifero! Se allontanati,  emettono un richiamo di disagio da separazione che mette la madre in allerta, spingendola a recuperare il piccolo. In maniera analoga, quando un neonato viene lasciato solo, il suo sistema nervoso darà segnale di pericolo di vita producendo un elevato tasso di cortisolo, ormone dello stress, che, nei casi più infelici, rischia di produrre modifiche permanenti nelle strutture cerebrali tra cui amigdala e ippocampo, coinvolte nella costruzione della memoria e nella capacità di gestire emozioni. Questi dati dovrebbero renderci assai cauti sul sottoporre i nostri neonati e bambini piccoli a metodi quali il pianto controllato e ad oltranza, concepiti per farli dormire più a lungo!

Moltissime coppie si trovano a dover affrontare ciò che può sembrare «inaffrontabile»: i risvegli frequenti e la difficoltà di addormentamento del proprio bambino nei primi tre anni di vita. «Si tratta di insonnia a tutti gli effetti - spiega Paola Proserpio, neurologa al Centro di Medicina del Sonno dell’Ospedale Niguarda di Milano -, che però nel bambino ha caratteristiche diverse rispetto a quella dell’adulto: il primo non vuole dormire e si sforza di stare sveglio, il secondo vorrebbe dormire ma non ci riesce». Nei primi 3 anni di vita, il 20-30% dei bambini presenta dei disturbi del sonno: percentuale che scende al 15% dopo i 3 anni. I più «a rischio» sembrano essere i primogeniti o figli unici, quelli allattati al seno e quelli che dormono nel lettone. «Raramente le cause sono organiche - continua Proserpio -, per la maggior parte (più dell’80%) l’insonnia dipende da fattori psico-fisiologici, principalmente legati all’organizzazione della giornata, alla molteplicità di stimoli che si trovano intorno e alle abitudini date dai genitori (98%). Esistono anche le questioni organiche, le più frequenti sono: reflusso, disturbi dell’orecchio, asma, dermatite atopica».
Bene, probabilmente questa cara neurologa non conosce affatto la fisiologia del sonno:
Il sonno è un’esigenza fisiologica, come mangiare e respirare, senza la quale non potremmo sopravvivere. Ed è un’esigenza fisiologica sia per gli adulti che per i bambini.
Eppure quante volte sentiamo ripetere “mio figlio non dorme”, oppure “il sonno di mio figlio è un vero problema”? Come mai, a differenza di quello degli adulti, il sonno dei bambini desta così tante preoccupazioni?
Forse la risposta risiede in una valutazione errata, secondo schemi e aspettative prettamente adulti, che non tiene conto della particolare fisiologia del sonno infantile. I frequenti risvegli notturni – che si ripetono fino all’età di circa 3-4 anni – altro non sono che il naturale risultato della struttura fisiologica del sonno del bambino, in cui le fasi REM (quelle in cui si sogna e il sonno è più leggero) sono preponderanti rispetto alle fasi non REM (o di sonno profondo).
È normale, quindi, che un bambino al di sotto dei tre anni si svegli di frequente, così come sarebbe naturale per lui trovare accanto a sé la madre che lo tranquillizzi offrendogli il seno. Dormire accanto al proprio bimbo favorirebbe un sonno più ristoratore per la madre stessa, che non dovrebbe rispondere ai richiami del piccolo alzandosi dal letto, cercando – con grande disagio e pazienza sempre più ridotta – di riaddormentarlo nel suo lettino!
Eppure il diffondersi di una cultura di accudimento a basso contatto, che raccomanda il distacco precoce tra madre e figlio per favorire l’autonomia di quest’ultimo ha osteggiato la pratica del sonno condiviso e dell’allattamento notturno, in nome di una ipotetica educazione al sonno autonomo nel bambino. Da qui metodi e pubblicazioni, privi di qualsiasi evidenza scientifica a suffragio della loro validità, per insegnare ai bambini a dormire da soli sin dalla più tenera età, per fare di loro adulti equilibrati e sereni, e a salvaguardia dell’intimità della coppia e del benessere dell’intera famiglia!
Niente di più errato: i bambini non hanno bisogno di essere “educati” a dormire, poiché sono già dotati di questa capacità, esattamente come della competenza che li porta – intorno all’anno di vita – a camminare da soli e a parlare. I bambini hanno soltanto bisogno di essere accompagnati nella loro crescita verso l’acquisizione dei ritmi fisiologici di sonno/veglia, nel rispetto dei tempi personali di ognuno.
Quando accetteremo di valutare il sonno dei bambini secondo la sua natura, e di assecondare i reali bisogni di ogni cucciolo d’uomo di contatto e accudimento anche notturno (attraverso il sonno condiviso e l’allattamento materno) non sentiremo più pronunciare la solita frase “il mio bambino non mi dorme!”
Cosa fare, cosa evitare
Cominciamo a dire che cosa è bene non fare - chiarisce Proserpio -: far addormentare il bambino in braccio, nel lettone, nel passeggino, in auto o in qualunque posto che non sia il suo letto; abituarlo a un contatto con la madre durante l’addormentamento (es. la mano); dare il biberon o allattarlo mentre prende sonno; farlo stancare perché dorma di più. Vediamo invece che cosa si può fare: oltre al suddetto rituale serale, il genitore deve stare col bambino finché è tranquillo, magari dire sempre la stessa frase (es. «Fai dei bei sogni») e poi lasciare la stanza, spiegando al bambino dove va e perché. Se il bambino piange si può aspettare qualche secondo prima di tornare a tranquillizzarlo, sempre lasciandolo nel suo letto. Le qualità richieste ai genitori in questo processo sono: sicurezza, tranquillità, disponibilità a insegnare, ripetitività dei gesti». È importante, come detto, che il bambino dorma nella sua camera, assieme ai suoi giochi e alle sue cose: se è necessario correggere l’insonnia un buon punto di partenza può essere quello di creare o ricreare lo spazio del piccolo, sottolineando l’importanza di questo passaggio in relazione alla sua autonomia e al suo benessere.
Lasciar piangere il proprio bambino va contro l’istinto genitoriale - commenta Proserpio -, quindi è difficile riuscire a mettere in atto questo metodo. Però riteniamo valida la prima parte del libro, che riguarda le già citate buone abitudini per l’addormentamento e l’importanza di dormire ognuno nel proprio spazio. Il bambino deve essere abituato a dormire fin da piccolo nel suo letto, e possibilmente nella sua stanza, perché altrimenti si crea un’abitudine che è difficile correggere quando sarà più grande. Va detto che esistono anche teorie favorevoli al dormire tutti insieme nel lettone (co-sleeping), una pratica che favorirebbe in particolare il rapporto madre-figlio. Ma che secondo altri potrebbe ostacolare il raggiungimento dell’autonomia del bambino nel gestire il proprio sonno, oltre che ovviamente ridurre l’intimità tra i genitori». Un momento critico, anche se il bambino è abituato a dormire senza problemi, può presentarsi intorno ai 9 mesi di età, quando il piccolo prende sempre più coscienza della realtà che lo circonda e aumentano i risvegli notturni, anche a causa di sogni e incubi, che iniziano a strutturarsi proprio in quel periodo. È importante che il genitore continui a trasmettere sicurezza, senza farsi prendere dall’ansia, perché i bambini vivono continuamente il riflesso di ciò che «leggono» nei propri genitori (e i bambini in questo sono straordinari): se percepiscono stanchezza, insicurezza, paura, saranno a loro volta portati a vivere le stesse emozioni e dunque a dormire ancora peggio. «Esistono due tipologie di bambini, gli autoconsolatori e i segnalatori - aggiunge Proserpio -: i primi sono in grado di riaddormentarsi da soli (a un anno di età sono il 60-70% del totale), gli altri “segnalano” molto esplicitamente il proprio disagio e hanno bisogno di rassicurazioni frequenti. Anche in questo caso la differenza dipende per lo più dalle abitudini date dai genitori».

Probabilmente in un mondo abituato al basso contatto prendere in considerazione cosa significa essere un genitore ad alto contatto non è di norma.. ma vediamo che significa e a cosa porta l’alto contatto:
Cosa vuol dire essere genitori ad alto contatto?
Non saprei dare una risposta che possa in se racchiudere il significato della parola "alto contatto".
La verità, secondo me, infatti va cercata dentro ognuno di noi, dentro il nostro modo di pensare, essere ed agire.
So di certo che essere mamma ad alto contatto comporta inizialmente molti sacrifici, ma che col tempo questi saranno ampiamente ricompensati.
La costruzione del
legame di attaccamento ha come obiettivo il raggiungimento di una condizione di PROTEZIONE e, quindi, di una sensazione di SICUREZZA da parte del bambino.
Bowlby definisce la base sicura come “la base da cui un bambino parte per esplorare il modo e a cui può far ritorno in ogni momento di difficoltà o in cui ne senta il bisogno”.

I bambini cercheranno la loro base sicura in momenti di pericolo, malattia, stanchezza o dopo una separazione.
Questo fenomeno riconosce anche negli adulti.
Tutti noi ci sentiamo “a casa” con coloro che conosciamo e di cui ci fidiamo e all’interno di un ambiente “familiare” siamo capaci di rilassarci e di impegnarci nei nostri progetti, che siano gioco, lavoro o svago.
Da questo concetto si comprende facilmente come non abbia senso palare di “vizi” dati ai bambini.
Questi cercheranno la vicinanza della madre o di chi si prende cura di loro, per fare il pieno di sicurezza ogniqualvolta percepiranno sensazioni di incertezza.
Ciò sarà normalissimo se avviene di notte o dopo che la mamma è stata fuori casa per qualche ora, ma anche in altri momenti che magari noi adulti non comprendiamo immediatamente.

Via, via che passano i mesi, il bambino farà tesoro di questa sicurezza e svilupperà la sua autonomia coi propri tempi di crescita.
Ecco quindi, che lasciar piangere i bambini di notte o imporgli un
allattamento ad orario non rispetterà in alcun modo le sensazioni che il bambino prova e che vuole comunicare a suo modo ai genitori.
Non ascoltare e elaborare insieme queste sensazioni, porterà facilmente ad una frattura nella relazione di fiducia che si deve creare fra genitori e figli. (.1)

In questo modo il bambino, e poi l'adulto, può sentirsi libero di allontanarsi e differenziarsi gradualmente dalla mamma ed iniziare ad esplorare il mondo esterno, con la sicurezza di poterla ritrovare al suo ritorno.
Ciascun individuo possiede dunque un particolare stile d'attaccamento che caratterizza le sue interazioni affettive (relazioni di coppia, relazioni intime, ecc.) e che influenzerà a sua volta lo stile d'attaccamento del proprio bambino. (.2)

"(...) negli anatroccoli e nelle papere: nelle ore successive all'uscita dall'uovo i giovani uccelli seguono il primo oggetto in movimento che hanno percepito; non solo, ben presto giunge il momento in cui seguono solo l'oggetto già seguito in precedenza ed evitano tutti gli altri.
Questo rapido apprendimento di un oggetto familiare e la successiva tendenza a seguirlo è noto come "imprinting"

Intorno al primo anno di vita, secondo J. Bowlby, il bambino inizia ad organizzare la sua esperienza affettiva in base al modello della figura di attaccamento con alla base queste caratteristiche chiave: “ il concetto di chi siano le figure di attaccamento, di dove le si possa trovare e del modo in cui ci si possa aspettare che reagiscano” (Bowlby, 1973).
La stabilità del modello di attaccamento nei primi due anni di vita, pertanto, è una proprietà della diade madre - bambino che determinail comportamento del bambino nel tempo.
Il comportamento di attaccamento si manifesta in modo intenso e regolare fino alla fine del terzo anno. A questa epoca, secondo Bowlby, si verifica un cambiamento ben noto agli insegnanti delle scuole materne: sino a due anni e nove mesi circa, la maggior parte dei bambini che frequentano l'asilo si dispera quando la madre se ne va; anche se il loro pianto può essere breve, i bambini tendono tuttavia a rimanere inattivi e appartati, ad esigere costantemente l'attenzione dell'insegnante, in netto contrasto col modo in cui e si comporterebbero nella stessa situazione se la madre rimanesse con loro.

Dopo i tre anni invece i bambini sono assai più capaci di accettare una momentanea assenza della madre e di mettersi a giocare con altri bambini.
In molti bambini questo cambiamento sembra improvviso; ciò fa pensare che a questa età si oltrepassi una qualche soglia maturativa.
Bowlby sostiene che i bambini dopo i tre anni diventano sempre più capaci di sentirsi sicuri in un ambiente estraneo e con figure di attaccamento secondarie, quali un parente o l'insegnante.
Questo senso di sicurezza è subordinato a certe condizioni:
·         le figure secondarie devono essere persone note che preferibilmente il bambino abbia conosciuto in compagnia della madre;
·         il bambino deve essere sano e sereno, deve sapere dov'è la madre, deve essere sicuro di poter riprendere contatto con lei in breve tempo.

In mancanza di tali condizioni è facile che il bambino rimanga "mammone" o manifesti altri disturbi. Pur attenuandosi il comportamento di attaccamento persiste anche nei primi anni di scolarità.

Quando camminano in strada, i bambini di 5-6 anni e anche più a volte amano tenere la mano del genitore e anche aggrapparvisi, e se ne hanno a male se questi li rifiuta.
Quando giocano con altri bambini se qualcosa non va, ritornano immediatamente dal genitore oppure dal suo sostituto.
Se sono appena un po' spaventati cercano immediatamente il contatto.

Durante l'
adolescenza l'attaccamento ai genitori diminuisce, altri adulti possono assumere un'importanza uguale o maggiore dei genitori, l'attrazione sessuale per i coetanei comincia ad allargare l'orizzonte.
Ad un estremo troviamo gli adolescenti che si distaccano dai genitori, all'altro quelli che vi rimangono intensamente attaccati e non sono capaci di dirigere verso altri il loro attaccamento.
Tra questi estremi sta la grande maggioranza degli
adolescenti, in cui l'attaccamento ai genitori rimane forte, ma in cui sono anche molto importanti i legami con altre persone. (.3)

"(...) il comportamento di attaccamento nella vita adulta è una continuazione diretta di quello dell'infanzia"'   


♥ Mamma Silvia G. ♥Fine modulo

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