Mamma senza filtro
Il mio lavoro da tre
anni e mezzo è uno solo, il più bello del mondo: essere Mamma di due bambini,
Christian di tre anni e mezzo e Fiamma di due anni. Una mamma alla quale piace
informarsi e informare e possibilmente far conoscere e capire falsi miti sull’infinito
mondo dei bambini. https://www.facebook.com/groups/mammeitalia/
Per
segnalazioni scrivetemi alla mail: syluna@libero.it
Il
co-sleeping è autonomia
Una mamma ci
ha segnalato un articolo a mio avviso assolutamente contestabile che potete
trovare nel link seguente: http://www.corriere.it/salute/speciali/2014/sonno/notizie/disturbi-sonno-bambini-l-80percento-ha-cause-comportamentali-13ea8926-9492-11e3-af50-9dc536a34228.shtml
Ora vediamo
di analizzare un po’ i contenuti e controbattere:
Dunque
perché è addirittura fondamentale che il bambino (neonato) diventi autonomo?
Abbiamo veramente cosi fretta di farli crescere?
Partiamo
col dire che: Ogni famiglia è un mondo, un sistema a
sé e con il proprio funzionamento e deve trovare il suo modo, unico ed
inimitabile, di vivere la genitorialità. Nessuno dovrebbe sentirsi in diritto di giudicare le scelte di qualcun
altro! Non è sbagliato far dormire i bambini nel loro lettino ma
non è nemmeno sbagliato, tantomeno dannoso, dormire tutti insieme nel lettone;
è solo una questione di cultura e di stile personale
Detto ciò proviamo a fermarci e a pensare alla storia delle relazioni familiari, non dovrebbe stupirci il fatto
che, per la gran parte della storia dell’uomo, madri e figli hanno vissuto
nella natura selvaggia e che i risvegli
notturni hanno assicurato ai bambini nutrimento, protezione, calore.
Fino all’inizio del Novecento non ci si poneva nemmeno il problema di dove
dovessero dormire i bambini, perché era ovvio e naturale dormire tutti insieme. In termini psicologici la
vicinanza alla madre, diurna e notturna, fornisce protezione, calore e
nutrimento ed è quanto si aspettano tutti i cuccioli di mammifero! Se
allontanati, emettono un richiamo di disagio da separazione che mette la
madre in allerta, spingendola a recuperare il piccolo. In maniera analoga,
quando un neonato viene lasciato solo, il suo sistema nervoso
darà segnale di pericolo di vita
producendo un elevato tasso di cortisolo, ormone dello stress, che, nei
casi più infelici, rischia di produrre modifiche permanenti nelle strutture
cerebrali tra cui amigdala e ippocampo, coinvolte nella costruzione della
memoria e nella capacità di gestire emozioni. Questi dati dovrebbero renderci assai cauti
sul sottoporre i nostri neonati e bambini piccoli a metodi quali il pianto
controllato e ad oltranza, concepiti per farli dormire più a lungo!
Moltissime coppie si trovano a dover
affrontare ciò che può sembrare «inaffrontabile»: i risvegli frequenti e la
difficoltà di addormentamento del proprio bambino nei primi tre anni di vita.
«Si tratta di insonnia a tutti gli effetti - spiega Paola Proserpio, neurologa al Centro di Medicina
del Sonno dell’Ospedale Niguarda di Milano -, che però nel bambino ha
caratteristiche diverse rispetto a quella dell’adulto: il primo non vuole
dormire e si sforza di stare sveglio, il secondo vorrebbe dormire ma non ci
riesce». Nei primi 3 anni di vita, il 20-30% dei bambini presenta dei disturbi
del sonno: percentuale che scende al 15% dopo i 3 anni. I più «a rischio»
sembrano essere i primogeniti o figli unici, quelli allattati al seno e quelli
che dormono nel lettone. «Raramente le cause sono organiche - continua
Proserpio -, per la maggior parte (più dell’80%) l’insonnia dipende da fattori
psico-fisiologici, principalmente legati all’organizzazione della giornata,
alla molteplicità di stimoli che si trovano intorno e alle abitudini date dai
genitori (98%). Esistono anche le questioni organiche, le più frequenti sono:
reflusso, disturbi dell’orecchio, asma, dermatite atopica».
Bene, probabilmente questa cara neurologa non conosce
affatto la fisiologia del sonno:
Il sonno è un’esigenza fisiologica, come mangiare e respirare, senza la
quale non potremmo sopravvivere. Ed è un’esigenza fisiologica sia per gli
adulti che per i bambini.
Eppure quante volte sentiamo ripetere “mio figlio non dorme”, oppure “il
sonno di mio figlio è un vero problema”? Come mai, a differenza di quello degli
adulti, il sonno dei bambini desta così tante preoccupazioni?
Forse la risposta risiede in una valutazione errata, secondo schemi e
aspettative prettamente adulti, che non tiene conto della particolare
fisiologia del sonno infantile. I frequenti risvegli notturni – che si ripetono
fino all’età di circa 3-4 anni – altro non sono che il naturale risultato della
struttura fisiologica del sonno del bambino, in cui le fasi REM (quelle in cui
si sogna e il sonno è più leggero) sono preponderanti rispetto alle fasi non
REM (o di sonno profondo).
È normale, quindi, che un bambino al di sotto dei tre anni si svegli di
frequente, così come sarebbe naturale per lui trovare accanto a sé la madre che
lo tranquillizzi offrendogli il seno. Dormire accanto al proprio bimbo
favorirebbe un sonno più ristoratore per la madre stessa, che non dovrebbe
rispondere ai richiami del piccolo alzandosi dal letto, cercando – con grande
disagio e pazienza sempre più ridotta – di riaddormentarlo nel suo lettino!
Eppure il diffondersi di una cultura di accudimento a basso contatto, che
raccomanda il distacco precoce tra madre e figlio per favorire l’autonomia di
quest’ultimo ha osteggiato la pratica del sonno condiviso e dell’allattamento
notturno, in nome di una ipotetica educazione al sonno autonomo nel bambino. Da
qui metodi e pubblicazioni, privi di qualsiasi evidenza scientifica a suffragio
della loro validità, per insegnare ai bambini a dormire da soli sin dalla più
tenera età, per fare di loro adulti equilibrati e sereni, e a salvaguardia
dell’intimità della coppia e del benessere dell’intera famiglia!
Niente di più errato: i bambini non hanno bisogno di essere “educati” a
dormire, poiché sono già dotati di questa capacità, esattamente come della
competenza che li porta – intorno all’anno di vita – a camminare da soli e a
parlare. I bambini hanno soltanto bisogno di essere accompagnati nella loro
crescita verso l’acquisizione dei ritmi fisiologici di sonno/veglia, nel
rispetto dei tempi personali di ognuno.
Quando accetteremo di
valutare il sonno dei bambini secondo la sua natura, e di assecondare i reali
bisogni di ogni cucciolo d’uomo di contatto e accudimento anche notturno
(attraverso il sonno condiviso e l’allattamento materno) non sentiremo più
pronunciare la solita frase “il mio bambino non mi dorme!”
Cosa fare, cosa evitare
Cominciamo a dire che cosa è bene
non fare - chiarisce Proserpio -: far addormentare il bambino in braccio, nel
lettone, nel passeggino, in auto o in qualunque posto che non sia il suo letto;
abituarlo a un contatto con la madre durante l’addormentamento (es. la mano);
dare il biberon o allattarlo mentre prende sonno; farlo stancare perché dorma
di più. Vediamo invece che cosa si può fare: oltre al suddetto rituale serale,
il genitore deve stare col bambino finché è tranquillo, magari dire sempre la
stessa frase (es. «Fai dei bei sogni») e poi lasciare la stanza, spiegando al
bambino dove va e perché. Se il bambino piange si può aspettare qualche secondo
prima di tornare a tranquillizzarlo, sempre lasciandolo nel suo letto. Le qualità
richieste ai genitori in questo processo sono: sicurezza, tranquillità,
disponibilità a insegnare, ripetitività dei gesti». È importante, come detto,
che il bambino dorma nella sua camera, assieme ai suoi giochi e alle sue cose:
se è necessario correggere l’insonnia un buon punto di partenza può essere
quello di creare o ricreare lo spazio del piccolo, sottolineando l’importanza
di questo passaggio in relazione alla sua autonomia e al suo benessere.
Lasciar piangere
il proprio bambino va contro l’istinto genitoriale - commenta Proserpio -,
quindi è difficile riuscire a mettere in atto questo metodo. Però riteniamo
valida la prima parte del libro, che riguarda le già citate buone abitudini per
l’addormentamento e l’importanza di dormire ognuno nel proprio spazio. Il
bambino deve essere abituato a dormire fin da piccolo nel suo letto, e
possibilmente nella sua stanza, perché altrimenti si crea un’abitudine che è
difficile correggere quando sarà più grande. Va detto che esistono anche teorie
favorevoli al dormire tutti insieme nel lettone (co-sleeping), una
pratica che favorirebbe in particolare il rapporto madre-figlio. Ma che secondo
altri potrebbe ostacolare il raggiungimento dell’autonomia del bambino nel
gestire il proprio sonno, oltre che ovviamente ridurre l’intimità tra i
genitori». Un momento critico, anche se il bambino è abituato a dormire senza
problemi, può presentarsi intorno ai 9 mesi di età, quando il piccolo prende
sempre più coscienza della realtà che lo circonda e aumentano i risvegli
notturni, anche a causa di sogni e incubi, che iniziano a strutturarsi proprio
in quel periodo. È importante che il genitore continui a trasmettere sicurezza,
senza farsi prendere dall’ansia, perché i bambini vivono continuamente il
riflesso di ciò che «leggono» nei propri genitori (e i bambini in questo sono
straordinari): se percepiscono stanchezza, insicurezza, paura, saranno a loro
volta portati a vivere le stesse emozioni e dunque a dormire ancora peggio.
«Esistono due tipologie di bambini, gli autoconsolatori e i segnalatori -
aggiunge Proserpio -: i primi sono in grado di riaddormentarsi da soli (a un
anno di età sono il 60-70% del totale), gli altri “segnalano” molto
esplicitamente il proprio disagio e hanno bisogno di rassicurazioni frequenti.
Anche in questo caso la differenza dipende per lo più dalle abitudini date dai
genitori».
Probabilmente in un mondo abituato al basso contatto
prendere in considerazione cosa significa essere un genitore ad alto contatto
non è di norma.. ma vediamo che significa e a cosa porta l’alto contatto:
Cosa vuol dire essere genitori ad alto contatto?
Non saprei dare una risposta che possa in se racchiudere il significato della parola "alto contatto".
La verità, secondo me, infatti va cercata dentro ognuno di noi, dentro il nostro modo di pensare, essere ed agire.
So di certo che essere mamma ad alto contatto comporta inizialmente molti sacrifici, ma che col tempo questi saranno ampiamente ricompensati.
La costruzione del legame di attaccamento ha come obiettivo il raggiungimento di una condizione di PROTEZIONE e, quindi, di una sensazione di SICUREZZA da parte del bambino.
Bowlby definisce la base sicura come “la base da cui un bambino parte per esplorare il modo e a cui può far ritorno in ogni momento di difficoltà o in cui ne senta il bisogno”.
I bambini cercheranno la loro base sicura in momenti di pericolo, malattia, stanchezza o dopo una separazione.
Questo fenomeno riconosce anche negli adulti.
Tutti noi ci sentiamo “a casa” con coloro che conosciamo e di cui ci fidiamo e all’interno di un ambiente “familiare” siamo capaci di rilassarci e di impegnarci nei nostri progetti, che siano gioco, lavoro o svago.
Da questo concetto si comprende facilmente come non abbia senso palare di “vizi” dati ai bambini.
Questi cercheranno la vicinanza della madre o di chi si prende cura di loro, per fare il pieno di sicurezza ogniqualvolta percepiranno sensazioni di incertezza.
Ciò sarà normalissimo se avviene di notte o dopo che la mamma è stata fuori casa per qualche ora, ma anche in altri momenti che magari noi adulti non comprendiamo immediatamente.
Via, via che passano i mesi, il bambino farà tesoro di questa sicurezza e svilupperà la sua autonomia coi propri tempi di crescita.
Ecco quindi, che lasciar piangere i bambini di notte o imporgli un allattamento ad orario non rispetterà in alcun modo le sensazioni che il bambino prova e che vuole comunicare a suo modo ai genitori.
Non ascoltare e elaborare insieme queste sensazioni, porterà facilmente ad una frattura nella relazione di fiducia che si deve creare fra genitori e figli. (.1)
In questo modo il bambino, e poi l'adulto, può sentirsi libero di allontanarsi e differenziarsi gradualmente dalla mamma ed iniziare ad esplorare il mondo esterno, con la sicurezza di poterla ritrovare al suo ritorno.
Ciascun individuo possiede dunque un particolare stile d'attaccamento che caratterizza le sue interazioni affettive (relazioni di coppia, relazioni intime, ecc.) e che influenzerà a sua volta lo stile d'attaccamento del proprio bambino. (.2)
"(...) negli anatroccoli e nelle papere: nelle ore successive all'uscita dall'uovo i giovani uccelli seguono il primo oggetto in movimento che hanno percepito; non solo, ben presto giunge il momento in cui seguono solo l'oggetto già seguito in precedenza ed evitano tutti gli altri.
Questo rapido apprendimento di un oggetto familiare e la successiva tendenza a seguirlo è noto come "imprinting"
Intorno al primo anno di vita, secondo J. Bowlby, il bambino inizia ad organizzare la sua esperienza affettiva in base al modello della figura di attaccamento con alla base queste caratteristiche chiave: “ il concetto di chi siano le figure di attaccamento, di dove le si possa trovare e del modo in cui ci si possa aspettare che reagiscano” (Bowlby, 1973).
La stabilità del modello di attaccamento nei primi due anni di vita, pertanto, è una proprietà della diade madre - bambino che determinail comportamento del bambino nel tempo.
Il comportamento di attaccamento si manifesta in modo intenso e regolare fino alla fine del terzo anno. A questa epoca, secondo Bowlby, si verifica un cambiamento ben noto agli insegnanti delle scuole materne: sino a due anni e nove mesi circa, la maggior parte dei bambini che frequentano l'asilo si dispera quando la madre se ne va; anche se il loro pianto può essere breve, i bambini tendono tuttavia a rimanere inattivi e appartati, ad esigere costantemente l'attenzione dell'insegnante, in netto contrasto col modo in cui e si comporterebbero nella stessa situazione se la madre rimanesse con loro.
Dopo i tre anni invece i bambini sono assai più capaci di accettare una momentanea assenza della madre e di mettersi a giocare con altri bambini.
In molti bambini questo cambiamento sembra improvviso; ciò fa pensare che a questa età si oltrepassi una qualche soglia maturativa.
Bowlby sostiene che i bambini dopo i tre anni diventano sempre più capaci di sentirsi sicuri in un ambiente estraneo e con figure di attaccamento secondarie, quali un parente o l'insegnante.
Questo senso di sicurezza è subordinato a certe condizioni:
Non saprei dare una risposta che possa in se racchiudere il significato della parola "alto contatto".
La verità, secondo me, infatti va cercata dentro ognuno di noi, dentro il nostro modo di pensare, essere ed agire.
So di certo che essere mamma ad alto contatto comporta inizialmente molti sacrifici, ma che col tempo questi saranno ampiamente ricompensati.
La costruzione del legame di attaccamento ha come obiettivo il raggiungimento di una condizione di PROTEZIONE e, quindi, di una sensazione di SICUREZZA da parte del bambino.
Bowlby definisce la base sicura come “la base da cui un bambino parte per esplorare il modo e a cui può far ritorno in ogni momento di difficoltà o in cui ne senta il bisogno”.
I bambini cercheranno la loro base sicura in momenti di pericolo, malattia, stanchezza o dopo una separazione.
Questo fenomeno riconosce anche negli adulti.
Tutti noi ci sentiamo “a casa” con coloro che conosciamo e di cui ci fidiamo e all’interno di un ambiente “familiare” siamo capaci di rilassarci e di impegnarci nei nostri progetti, che siano gioco, lavoro o svago.
Da questo concetto si comprende facilmente come non abbia senso palare di “vizi” dati ai bambini.
Questi cercheranno la vicinanza della madre o di chi si prende cura di loro, per fare il pieno di sicurezza ogniqualvolta percepiranno sensazioni di incertezza.
Ciò sarà normalissimo se avviene di notte o dopo che la mamma è stata fuori casa per qualche ora, ma anche in altri momenti che magari noi adulti non comprendiamo immediatamente.
Via, via che passano i mesi, il bambino farà tesoro di questa sicurezza e svilupperà la sua autonomia coi propri tempi di crescita.
Ecco quindi, che lasciar piangere i bambini di notte o imporgli un allattamento ad orario non rispetterà in alcun modo le sensazioni che il bambino prova e che vuole comunicare a suo modo ai genitori.
Non ascoltare e elaborare insieme queste sensazioni, porterà facilmente ad una frattura nella relazione di fiducia che si deve creare fra genitori e figli. (.1)
In questo modo il bambino, e poi l'adulto, può sentirsi libero di allontanarsi e differenziarsi gradualmente dalla mamma ed iniziare ad esplorare il mondo esterno, con la sicurezza di poterla ritrovare al suo ritorno.
Ciascun individuo possiede dunque un particolare stile d'attaccamento che caratterizza le sue interazioni affettive (relazioni di coppia, relazioni intime, ecc.) e che influenzerà a sua volta lo stile d'attaccamento del proprio bambino. (.2)
"(...) negli anatroccoli e nelle papere: nelle ore successive all'uscita dall'uovo i giovani uccelli seguono il primo oggetto in movimento che hanno percepito; non solo, ben presto giunge il momento in cui seguono solo l'oggetto già seguito in precedenza ed evitano tutti gli altri.
Questo rapido apprendimento di un oggetto familiare e la successiva tendenza a seguirlo è noto come "imprinting"
Intorno al primo anno di vita, secondo J. Bowlby, il bambino inizia ad organizzare la sua esperienza affettiva in base al modello della figura di attaccamento con alla base queste caratteristiche chiave: “ il concetto di chi siano le figure di attaccamento, di dove le si possa trovare e del modo in cui ci si possa aspettare che reagiscano” (Bowlby, 1973).
La stabilità del modello di attaccamento nei primi due anni di vita, pertanto, è una proprietà della diade madre - bambino che determinail comportamento del bambino nel tempo.
Il comportamento di attaccamento si manifesta in modo intenso e regolare fino alla fine del terzo anno. A questa epoca, secondo Bowlby, si verifica un cambiamento ben noto agli insegnanti delle scuole materne: sino a due anni e nove mesi circa, la maggior parte dei bambini che frequentano l'asilo si dispera quando la madre se ne va; anche se il loro pianto può essere breve, i bambini tendono tuttavia a rimanere inattivi e appartati, ad esigere costantemente l'attenzione dell'insegnante, in netto contrasto col modo in cui e si comporterebbero nella stessa situazione se la madre rimanesse con loro.
Dopo i tre anni invece i bambini sono assai più capaci di accettare una momentanea assenza della madre e di mettersi a giocare con altri bambini.
In molti bambini questo cambiamento sembra improvviso; ciò fa pensare che a questa età si oltrepassi una qualche soglia maturativa.
Bowlby sostiene che i bambini dopo i tre anni diventano sempre più capaci di sentirsi sicuri in un ambiente estraneo e con figure di attaccamento secondarie, quali un parente o l'insegnante.
Questo senso di sicurezza è subordinato a certe condizioni:
·
le figure
secondarie devono essere persone note che preferibilmente il bambino abbia
conosciuto in compagnia della madre;
·
il bambino
deve essere sano e sereno, deve sapere dov'è la madre, deve essere sicuro di
poter riprendere contatto con lei in breve tempo.
In mancanza di tali condizioni è facile che il bambino rimanga "mammone" o manifesti altri disturbi. Pur attenuandosi il comportamento di attaccamento persiste anche nei primi anni di scolarità.
Quando camminano in strada, i bambini di 5-6 anni e anche più a volte amano tenere la mano del genitore e anche aggrapparvisi, e se ne hanno a male se questi li rifiuta.
Quando giocano con altri bambini se qualcosa non va, ritornano immediatamente dal genitore oppure dal suo sostituto.
Se sono appena un po' spaventati cercano immediatamente il contatto.
Durante l'adolescenza l'attaccamento ai genitori diminuisce, altri adulti possono assumere un'importanza uguale o maggiore dei genitori, l'attrazione sessuale per i coetanei comincia ad allargare l'orizzonte.
Ad un estremo troviamo gli adolescenti che si distaccano dai genitori, all'altro quelli che vi rimangono intensamente attaccati e non sono capaci di dirigere verso altri il loro attaccamento.
Tra questi estremi sta la grande maggioranza degli adolescenti, in cui l'attaccamento ai genitori rimane forte, ma in cui sono anche molto importanti i legami con altre persone. (.3)
"(...) il comportamento di attaccamento nella vita adulta è una continuazione diretta di quello dell'infanzia"'
♥ Mamma Silvia G. ♥
Nessun commento:
Posta un commento